Con la parola transessuale si indica generalmente una persona
che persistentemente sente di appartenere al sesso opposto a quello
anagrafico e fisiologico.
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Storia del concetto
Secondo il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (Manuale di Classificazione dei Disturbi Mentali, IV edizione, redatto dall'Associazione Americana degli Psichiatri) e l'International Classification of Diseases (a cura dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, X edizione[1]), la persona transessuale, soffre di "disturbo dell'identità di genere" o "disforia di genere" (DIG). Questo senso di distonia e disforia
nei confronti del proprio sesso di nascita può svilupparsi già nei
primi anni di vita, durante l'adolescenza o, più raramente, in età
adulta.
Il termine "transessuale" viene coniato nel 1949 dal dottor David Cauldwell (1897-1959), ma diventa di uso comune dopo la pubblicazione del libro The transsexual phenomenon (Il fenomeno transessuale) del dott. Harry Benjamin, edito nel 1966, che diventa ben presto testo di studio universitario, in quanto è il primo libro che indaga sulla transessualità con un approccio anche nosografico, affermando che si tratta dell'unica patologia classificata come psichiatrica a non
essere curata psichiatricamente. Lo psichiatra infatti non "guarisce"
la persona transessuale facendola nuovamente sentire a proprio agio con
il suo sesso di origine, bensì avviando la persona a cui è
diagnosticato il "Disturbo dell'Identità di Genere" alle terapie
endocrinologiche e/o chirurgiche per iniziare il percorso di transizione.
Tale discrepanza è da inquadrarsi nel fatto che per molti decenni
fra la fine dell'800 e i primi venti anni del '900 la persona
transessuale veniva effettivamente sottoposta a tentativi di
"guarigione", ovvero di scomparsa del "disturbo", sia attraverso la
psicoterapia, sia attraverso la somministrazione di ormoni del proprio
sesso genetico.
Tali tentativi furono fallimentari e determinarono un numero
elevatissimo di suicidi fra le persone transessuali che subivano tali
trattamenti. Soltanto intorno al 1960 si iniziò a pensare che l'unica
"guarigione" della persona transessuale si potesse ottenere adeguando
il corpo alla psiche e non viceversa.
Il movimento transessuale mondiale rifiuta l'inquadramento
psichiatrico della propria condizione pur essendo consapevole del fatto
che la propria condizione richiede l'intervento della medicina per
trasformare la "disforia" in "euforia" o comunque in una stabilizzazione accettabile della qualità di vita.
La questione delle cause
L'ezio(pato?)genesi del transessualismo è ufficialmente ignota e
l'inquadramento psichiatrico sembra più uno stratagemma per far sì che
le persone transessuali possano accedere alle mutue, ai Sistemi
Sanitari Nazionali dei loro paesi, in attesa che ne venga chiarita la
vera eziogenesi.
A questo proposito è molto significativa la risposta che la dottoressa Peggy Cohen-Kettenis (docente di psicologia presso la Vrije Universiteit di Amsterdam
e responsabile del Gruppo sui Disturbi dell'Identità di Genere del
Dipartimento di Psicologia del Centro Medico della stessa Università,
annoverata fra i maggiori esperti internazionali di transessualismo) ha
dato nel corso di una conferenza tenutasi a Bari il 31 maggio 2003 conferenza.
In tale occasione la Cohen-Kettenis, alla domanda posta dal pubblico
«Se il "vero" transessuale è colui al quale viene consentito il
cambiamento di sesso, non ha psicopatologia associata, ha un buon esito
post-trattamento, ecc., perché allora i disturbi dell'identità di
genere rientrano nel DSM-IV, ossia vengono classificati come disturbi
mentali?», così rispondeva: «Questo è un buon punto. Credo che le
ragioni principali stiano fuori dal DSM. Ad esempio, una ragione
pratica, anche se non la più importante, è che senza un disturbo
classificato nel DSM, in molti paesi le compagnie di assicurazione non
coprirebbero le spese del trattamento. So che è un problema di cui si
sta discutendo nella preparazione del DSM-V.»
Recenti studi, inoltre, sembrano dimostrare sia una predisposizione genetica al transessualismo sia la presenza nelle persone transessuali di un dimorfismo sessuale del cervello opposto al sesso biologico in cui sono nate .
Condizione umana e sociale
Contrariamente a quanto spesso si pensa, la realtà transessuale
investe entrambe le direzioni di transizione: esistono quindi
transessuali maschi transizionanti femmina e transessuali femmine
transizionanti maschio. Internazionalmente si usa l'acronimo "FtM" per indicare i trans da femmina a maschio e "MtF" ad indicare le trans da maschio a femmina.
Sebbene la percentuale di transessuali MtF sia storicamente più elevata rispetto agli FtM, pur rimanendo anche attualmente inferiore allo 0,001%,
è altrettanto vero che negli ultimi anni questa percentuale sta andando
nella direzione della parificazione. L'apparente "inesistenza" dei
trans "FtM" è dovuta sostanzialmente alla maggiore "indistinguibilità"
che essi raggiungono con gli uomini genetici.
Le persone transessuali, in occidente, pur essendo considerate
"malate", subiscono sovente forti discriminazioni in ambito lavorativo
e sociale, anche per l'inadeguatezza delle attuali leggi nazionali sul
cosiddetto "cambiamento di sesso", ma soprattutto per uno stigma sociale che prende il nome di "transfobia".
La transfobia, apparentemente può sembrare una traduzione equivalente dell'omofobia.
In realtà i due fenomeni hanno origini diverse, espressioni diverse
anche se condividono il destino della discriminazione. Un tentativo di
distinguere i fenomeni "transfobia" e "omofobia" è stato fatto da Mirella Izzo, presidente di Crisalide AzioneTrans onlus nell'articolo "Transfobia e Omofobia: differenze e similitudini.
Lo stigma sociale della persona transessuale è in genere molto più
elevato rispetto a quello riservato alle persone omosessuali. Inoltre è
altrettanto più elevato per le trans da maschio a femmina rispetto ai
transessuali da femmina a maschio. Le motivazioni che possono essere
trovate per questo dato di fatto sono molteplici e controverse:
- l'omosessualità
è visibile solo all'interno delle tendenze sessuali ed affettive di una
persona mentre la transessualità comporta una netta trasformazione del
proprio corpo e pertanto provoca la necessità di una totale inversione
di valutazione della persona; - la transessualità da maschio a femmina è più stigmatizzata di
quella da femmina a maschio perché viviamo in una società
prevalentemente maschilista nella quale rinunciare alla "virilità"
costituisce una ferita più percepibile della rinuncia alla femminilità.
In ogni caso lo stigma sociale verso le transessuali MtF
è tale da rendere difficile l'inserimento lavorativo delle stesse. Se a
questo si aggiunge che spesso le famiglie ripudiano il figlio
transessuale e i costi della transizione, diventa evidente una spinta
della stessa società affinché la transessuale si dedichi alla prostituzione per sopravvivere.
La prostituzione transessuale è un fenomeno recente che peraltro mette in discussione anche la classificazione degli orientamenti sessuali.
A peggiorare la condizione delle persone transessuali è una sorta di
circolo vizioso nel quale la società, attraverso lo stigma, spinge la
transessuale alla prostituzione, la quale poi viene dalla stessa
società identificata come il lavoro unico e possibile delle
transessuali, con ciò rendendo l'immagine della persona transessuale
equivalente alla prostituzione, all'oggetto sessuale, alla
trasgressione.
Questo circolo vizioso alla fine determina il peggioramento
dell'immagine globale che si ha della transessualità e quindi della
transessuale in cerca di lavoro.
Il percorso di transizione
Normalmente, allo stato attuale, una persona che si ritiene transessuale deve in primis
rivolgersi ad uno psichiatra che diagnostichi il "disturbo
dell'identità di genere". Solo dopo questa certificazione può
rivolgersi all'endocrinologo per la terapia ormonale sostitutiva (estrogeni ed antiandrogeni per le trans MtF, testosterone per i trans FtM). Deve inoltre essere assente nel codice genetico ogni riferimento all'intersessualità o pseudoermafroditismo.
Senza questa diagnosi l'endocrinologo non potrebbe agire in quanto, in
questo particolare caso, il suo compito è quello di ammalare organi
sani.
Successivamente, o in accompagnamento alla terapia ormonale, la
persona transessuale MtF può sottoporsi a trattamenti
estetici-chirurgici (rimozione barba, mastoplastica additiva,
rimodellamento di naso e viso, ecc.). Di norma questi interventi
vengono considerati "chirurgia estetica" e sono a carico della persona
transessuale. Per i transessuali FtM di norma non vi è bisogno di
chirurgia estetica.
Effettuato il trattamento ormonale, secondo la legge 164/82 la
persona transessuale può richiedere al Tribunale autorizzazione agli
interventi chirurgici di conversione sessuale (penectomia, orchiectomia
e vaginoplastica per le trans; mastectomia, isterectomia, falloplastica o clitoridoplastica per i trans). Ottenuta sentenza positiva, la persona transessuale ha diritto all'intervento sui genitali a carico del SSN.
Effettuato l'intervento, la persona transessuale deve nuovamente
rivolgersi al Tribunale per chiedere il cambiamento di stato
anagrafico. Ottenuta la sentenza positiva, tutti i documenti d'identità
vengono modificati per sesso e per nome, con l'eccezione del casellario
giudiziario e l'estratto integrale di nascita, documenti che possono
essere richiesti esclusivamente dallo Stato o da Enti pubblici.
Alla fine di questo percorso, per la legge italiana un transessuale
da donna a uomo diventa uomo a tutti gli effetti, compreso il diritto a
sposarsi e ad adottare. Lo stesso vale per la transessuale da uomo a
donna. Si rende quindi assai difficile o addirittura impossibile
risalire al sesso originario di una persona.
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